Alberto Burri è sinonimo di Città di Castello e nella Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri se ne celebra lo splendore. Un percorso esemplare per numerose strutture museali, rende omaggio all’arte del grande Alberto Burri, capostipite dell’arte italiana del dopoguerra, narrandola puntualmente, in modo creativo e avvolgente.
Questi quadri senza titolo astratto ma semplicemente nominati in base agli elementi in esso espressi: cellotex, legno, sacco, metallo, argilla, catrame ecc o in base al colore.
Ammirare Burri non può prescinderne dall’osservazione del suo quadro in termini di struttura, composizione, forma con i quali l’artista esprime la sua singolare lingua pittorica. Il quadro stesso con la sua grammatica innovativa parla al pubblico di ogni tempo ed età in modo semplice e immediato sfruttando la materia non come media ma come fine.
Alberto Burri ha vissuto e lavorato incurante della critica ma certamente nei suoi quadri, soprattutto nei cicli pittori espressi nelle 11 sale dei seccatoi di tabacco si hanno interpretazioni di viaggi, di libri, di opere teatrali, di autori cannibalizzati dalle sue ampie tavole che spingono ad una lettura dell’artista in chiave esistenziale. Basti pensare al ciclo Metamorfex ispirato a Kafka.
Se è stato quasi immediato il suo grande successo di pubblico, è anche vero che l’intellighentia intellettuale del secolo scorso mal digerì le sue macchie. Basti pensare che quando nel 1959 la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma diretta da Palma Bucarelli acquista un Grande Sacco di Alberto Burri è subito polemica, inasprita tra l’altro da un’interrogazione parlamentare voluta dal senatore comunista Umberto Terracini. Molti con disprezzo lo definirono appunto l’artista del sacco. Cosa avrà visto Burri in questa juta logora, vile, lacerata in più parti ricucita chirurgicamente con un filo di ferro? Sa tanto di saio francescano con toppe di sacco ruvide, le sole ammesse dal serafico padre per gli abiti dell’Ordine. O forse no.
Quanto sa di sviluppo industriale e boom dell’ auto quel catrame misto a pomice e olio su tela, che appiccica il visitatore a quell’asfalto murario.
“Ho in mente da tanto tempo di dire come bruciano le cose”…..proprio nei primi anni cinquanta e per un decennio Burri sperimenta le numerose possibilità espressive della combustione dei vari materiali, quasi un’ossessione.
Un pittore Burri non pittore, che ricusava i pennelli, che plasmava la materia distruggendo, dando fuoco, consumando e forse dando pugni: prigioniero di guerra, inquieto per il futuro professionale (rinnegò il lavoro di medico) o forse semplicemente pervaso dal fuoco artistico.
Col passare degli anni e con il vivace cambiamento culturale si è avuta una matura evoluzione della percezione delle sue opere e la Fondazione umbra, da lui creata, ci permette appunto di conoscere non solo l’artista ma anche di accompagnarlo nelle diverse fortune legate a precise atmosfere politiche e sociali.
Il successo di Burri è stato aiutato anche da un’altra grande arte, la fotografia che ha volentieri documentato il suo lavoro; il
fotografo Ugo Mulas l’ha penetrato nell’intimità, sbirciando il suo laboratorio che sa tanto di teatrale. Aria, terra, fuoco, aria, ma non l’acqua nella sua opera, chissà….
L’eredità di Burri è trasmessa all’umanità oggi grazie al lavoro encomiabile della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri che in Palazzo Albizzini e nei Seccatoi del tabacco accompagna il visitatore in un percorso didattico artistico unico al mondo e soprattutto comprensibile a tutti, giovani e adulti, intenditori o no, esploratori curiosi della materia o appassionati dell’arte del’900.
Valentina Niccolai